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Diversamente simili
di Valentina Elia, FIRI /zoom
Diversitatea. È sempre difficile affrontare la questione della diversità, data la complessità dell’argomento e il pericolo, in esso intrinseco, di ferire la sensibilità delle persone.
E lo diventa ancor di più se parlando di diversità si affronta la questione dei gay.
In molte parti del mondo, ancora adesso, parlare dei gay e dei loro diritti vuol dire animare gli animi sia di coloro che, associazioni e non, lottano ogni giorno affinché i gay non vengano trattati come diversi e possano quindi godere serenamente e senza alcun ostacolo dei loro diritti, e coloro che, dall’altra parte, sostengono invece che i gay siano una realtà quasi innaturale.
E altrettanto difficile e complessa è la questione in Romania, un paese che continua a portarsi dietro pensieri e punti di vista di una dittatura che non tollerava determinate realtà, puntualmente soffocate e lasciate nell’oblio.
Ho vivida ancora adesso l’immagine di un giovane gay pestato davanti ai miei occhi nel caos della metropolitana di Bucarest. Ricordo l’immobilità della gente, l’indifferenza di fronte a una violenza ingiustificata, e la calma, dopo la tempesta, che aveva in sé un sapore amaro.
E ricordo tanti ragazzi, incontrati e conosciuti durante il mio soggiorno romeno, timorosi di rendere pubblica la loro omosessualità in un paese in cui forse essa viene vista ancora come una forma di diversità difficile da digerire e da gestire.
Ma i miei ricordi non vogliono qui tratteggiare l’immagine di una nazione chiusa. D’altronde le scene e le immagini qui suggerite non sono esclusivamente romene. Basta guardarsi intorno e ascoltare il tg, per rendersi conto che anche in Italia, e non solo, ragazzi vengono pestati a sangue ogni giorno per il semplice fatto di essere gay. In Italia non è facile parlare dei gay o dei loro diritti e, in questo, la presenza forte della Chiesa ha certamente un peso non indifferente.
Qui infatti io voglio parlare anche di una Romania che accoglie la diversità, che educa alla tolleranza, che scende in piazza a manifestare per i diritti dei gay. Voglio parlare di un progetto a livello europeo, a cui hanno aderito ben 64 scuole romene, a favore della diversità e della tolleranza, il cui slogan è Eu şi ceilalţi. Să descoperim diversitatea din jurul nostru [“Io e gli altri. Scopriamo la diversità che ci circonda”], che ben si lega alla volontà, espressa dagli alunni del Liceo bilingue “George Coşbuc” di Bucarest tramite una lettera, di inserire nei programmi scolastici i diritti dell’uomo e di organizzare, sempre a tal fine, una parata gay che, invece, è stata impedita lo scorso 11 febbraio.
Voglio parlare di una nazione quindi che reagisce, che difende, che tollera e che, ancora una volta, si presenta come espressione dei due lati di una stessa moneta.
Ostacoli e auspici nella lotta alla tratta in Romania e Italia
Inganni (promesse di lavoro ben retribuito all’estero), compravendita di persone destinate allo sfruttamento sessuale o lavorativo, violenze, riduzione in schiavitù: sono questi gli elementi principali di una piaga mondiale che coinvolge reti criminali di sfruttamento, da un lato, e le vittime destinate al mercato della degradazione umana, dall’altro. Se n’è parlato a Firenze tra il 27 e il 29 settembre, nell’ambito del quinto seminario nell’ambito del progetto Anima Nova (www.animanova.ro), dedicato alle “misure integrate di accompagnamento per l’inclusione socio-lavorativa delle vittime di tratta”.Rappresentanti di istituzioni e associazioni di Romania e d’Italia si sono incontrati per proseguire un lavoro comune, svolto nei quattro incontri precedenti (di cui due in Italia: Torino e Roma, e due in Romania, a Bucarest e Iaşi), che continuerà nei mesi prossimi con i lavori di Timişoara e Milano. Individuazione, approfondimento e aggiornamento sui metodi migliori e sulle prassi da condividere sul percorso di prevenzione del fenomeno di tratta, ma anche di assistenza alle vittime per favorirne il reinserimento sociale – ecco, in sintesi, l’oggetto del seminario. Ne abbiamo parlato col prof. Louis Ulrich, della Soros Foundation Romania, Bucarest, che ci ha gentilmente concesso l’intervista sottostante.
(La versione cartacea della presente intervista, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, è uscita, in romeno e in italiano, sul numero 5 (9 ottobre 2010) del quindicinale torinese “Ora”).
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Secondo Lei, quali sono i principali ostacoli attuali, dal punto di vista socio-culturale, ma anche sul piano legislativo e istituzionale, per la lotta contro la tratta?
Louis Ulrich: Non credo ci siano ostacoli socio-culturali o legate alla legislazione e alle istituzioni con responsabilità nel contrasto al traffico di esseri umani – né a livello nazionale (e mi riferisco sia alla Romania che all’Italia), né a livello internazionale. La Romania è uno Stato che ha firmato il Protocollo di Palermo, ha elaborato un corpus di leggi e atti normativi in conformità con la legislazione internazionale riguardante la prevenzione e la lotta contro la tratta, sono state create strutture istituzionali con precisi compiti e responsabilità in materia.
Dunque, la lotta contro la tratta in Romania non è sminuita da un deficit sul piano legislativo o da istituzioni poco attrezzate ad affrontare il fenomeno. La stessa cosa può essere affermata anche nel caso dell’Italia. Al contrario, tra le strutture dei due Paesi di contrasto alla tratta si è radicata da tempo una collaborazione molto stretta, sia tramite scambi di informazioni, sia tramite azioni comuni contro le reti di sfruttamento, da un lato, e di assistenza alle vittime, dall’altro.
Si sa però che le reti di sfruttamento sono molto organizzate, anche sul piano della difesa legale…
Certo, parliamo di una lotta tra due combattenti che dispongono di abilità e poteri il più delle volte sbilanciati. È risaputo che il traffico di persone è una delle attività criminali che, accanto al traffico di droga e di quello delle armi, produce ricavi colossali. Le somme ottenute nello sfruttamento della tratta, sia che si tratti di bambini e adulti, donne o uomini, superano spesso, di gran lunga, il PIL di alcuni Stati che si confrontano da tanto tempo con la povertà endemica o con frequenti guerre civili.
Solo per avere un’idea della vastità del fenomeno, vorrei ricordare alcuni numeri presentati nel Rapporto sul Traffico di Persone del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, pubblicato nel giugno di quest’anno. Si stima che, a livello mondiale, il numero degli adulti e dei bambini vittime delle varie forme di sfruttamento conseguente alla tratta sia di 12,3 milioni, mentre il numero delle vittime identificate è di 49.105. Rispetto a tali numeri, secondo i dati dello stesso Rapporto, le condanne per tratta nel 2009 sono state 4166, mentre esistono ancora 104 Paesi privi di leggi, politiche o misure di prevenzione della deportazione delle vittime identificate sul proprio territorio.
La differenza tra stime e vittime identificate è enorme
I numeri possono dire di più o di meno a seconda di chi legge e della prospettiva adoperata per la comprensione del fenomeno. Dobbiamo però tener presente un fatto molto semplice per capire la complessità della lotta di cui parlavano e lo squilibrio di forze impiegate nella tratta: ovvero, nel processo di tratta, la compravendita delle vittime tra i trafficanti è un fatto normalissimo, e ciascuna vendita viene fatta per ottenere il massimo del profitto possibile. Possiamo immaginare l’ammontare delle somme “investite” o “impiegate” e il profitto ottenuto solo se teniamo presente il fatto che nel primo passaggio, un reclutatore o un piccolo trafficante può vendere una vittima per due o trecento euro, mentre il valore “commerciale” di quest’ultima, e il relativo profitto ottenuto tramite sfruttamento potrà tranquillamente raddoppiare o triplicare con ciascuna successiva vendita, di modo che si potrà facilmente arrivare ad un profitto mensile di almeno 5000 euro. Se noi moltiplichiamo questa somma col numero di vittime, comprendiamo molto bene la dimensione finanziaria del fenomeno e la sua natura criminale. L’essenza del traffico di persone risiede nella reificazione: da essere umano, la vittima è trasformata in merce. Una merce che viene valutata dal venditore e dall’acquirente, con un prezzo che è contrattato tra i trafficanti, visto che la preoccupazione esclusiva di tutti quanti sono coinvolti in questo fenomeno, indipendentemente dal ruolo occupato nella gerarchia delle reti di tratta, è l’ottenimento del massimo profitto possibile. Infatti, è proprio a causa di queste somme immense ottenute in ciascun anello della catena criminale, che la lotta contro la tratta è sempre più difficile, dato che gli Stati non hanno, il più delle volte, risorse paragonabili a quelle di cui dispongono i trafficanti. In più, la tentazione di accedere a questi guadagni fantastici è enorme, e la sostituzione di un attore più piccolo o più grande in questo meccanismo è fatta non soltanto con molta rapidità, ma anche con un evidente desiderio di occupare un posto quanto più alto nella gerarchia. La dimensione pecuniaria annulla ogni tipo di sentimento umano nei riguardi delle vittime, e tanto meno il rischio di una guerra personale con una istituzione nazionale o sovrannazionale, o con un’organizzazione internazionale, per non parlare dell’accettazione delle leggi e regole imposte tramite legislazione o azioni che denunciano il fenomeno.
Per tornare ai romeni presenti in Italia, a suo avviso come possono contribuire alla prevenzione del fenomeno già dal Paese di origine?
L’Italia è uno dei principali Paesi di destinazione dei cittadini romeni, minori e adulti, trafficati ai fini dello sfruttamento sessuale o lavorativo. Mentre il fenomeno della prostituzione (forzata o no) quale effetto della tratta è più visibile per via dell’esibizione pubblica delle vittime e, di conseguenza, più facile da identificare, controllare e combattere dalle istituzioni governative abilitate, congiuntamente all’azione preventiva realizzata dalle ONG, la tratta ai fini dello sfruttamento lavorativo sembra essere, invece, un tema meno conosciuto dalla popolazione in generale, non solo in Italia. La Romania è un Paese di origine per molte persone trafficate in Italia anche in vista del lavoro forzato. Questo fenomeno, che è sempre più esteso e ha sulle vittime conseguenze altrettanto devastanti delle altre forme di sfruttamento, è diventato un argomento di preoccupazione permanente per le autorità romene.
Le campagne di prevenzione a livello regionale o focalizzate nelle zone che sono note alle autorità italiane per essere destinazioni predilette scelte dai trafficanti (specialmente per lo sfruttamento lavorativo nell’edilizia o in agricoltura), possono avere un impatto molto consistente sui cittadini italiani. Questo, in considerazione del fatto che le persone trafficate non sono molto visibili, il loro contatto con gli autoctoni è minimo, ed è proprio su questa mancanza di reazione della popolazione locale che i trafficanti puntano; mancanza di reazione generata soprattutto dalla mancanza di informazioni su questo fenomeno anche nelle zone che ne sono interessate.
Un ruolo molto importante nell’avviare e svolgere tali azioni di sensibilizzazione delle comunità locali, per attirarne l’attenzione su un fenomeno piuttosto poco conosciuto o riconosciuto, anche se molto diffuso, potrebbero avere le ONG, naturalmente col sostegno logistico delle istituzioni locali o centrali. Inoltre, le associazioni degli immigrati (ma non solo dei romeni), possono benissimo essere coinvolte in tali campagne. Essi possono essere vettori credibili, fornitori di informazioni pertinenti su certe realtà durissime, dato che hanno superato l’iniziale barriera di diffidenza dei locali e godono di un certo grado di accettazione, se non di integrazione, nella popolazione locale.
In questo senso, i seminari bilaterali di lavoro, come questo di Firenze, sono un passo avanti, anche nell’ottica del coinvolgimento delle associazioni dei due Paesi
Sì, il seminario organizzato a Firenze nell’ambito del progetto Anima Nova, coordinato da organizzazioni non governative di Romania e d’Italia, è stata una prova perentoria del fatto che gli sforzi comuni profusi in due Paesi possono avere un ottimo risultato. Anzi, è stato evidente che la maggior parte delle ONG italiane partecipanti avevano un grande bisogno di informarsi sulle realtà della Romania in generale, e sul fenomeno della tratta in particolare. Questo deficit di conoscenza, peraltro molto legittimo, visto che nemmeno le autorità romene non hanno fatto sforzi troppo grandi per la disseminazione di informazioni nel seno della società e dei media italiani, può essere colmato in abbastanza facile ed efficace mediante un’organizzazione più efficiente e incontri con frequenza più elevata tra gli enti locali e le ONG attive nei due Paesi nel settore della prevenzione della tratta e dell’assistenza alle vittime di tratta. Credo che lo scambio continuo di informazioni, ma anche di idee e buone pratiche a livello “micro”, per così dire, ovvero al livello “grass root organizations”, sia una delle più efficaci modalità per la costruzione di campagne a raggio limitato, ma costante, ben mirate e dunque azzeccate, per la prevenzione della tratta di cittadini romeni in Italia.
Lei pensa che, se non la legalizzazione vera e propria, almeno la depenalizzazione della prostituzione potrebbe facilitare la lotta allo sfruttamento sessuale? Le chiedo questo considerando che la legge romena, a differenza di quella italiana, punisce non soltanto gli sfruttatori, ma anche le persone che praticano la prostituzione, sia che si tratti di una scelta libera o di una coercizione.
La risposta a questa domanda, o meglio i tentativi per rispondere a queste domande, si sono costituiti in altrettanto posizioni degli interrogati, talvolta intransigenti e radicali, posizioni che hanno spesso non solo un carico etico-sociale, ma anche politico. Gli argomenti variano da quelli di tipo funzionale-economico (una volta depenalizzata o, più correttamente, sgravata di ogni connotazione che la situi al di fuori della legge, la prostituzione può essere vista come attività di natura economica, fornitrice di reddito alle casse dello Stato, i soggetti che si prostituiscono diventando in tal modo persone la cui professione li rende semplici contribuenti paganti tasse e imposte), a quello sanitario (il controllo medico permanente e il monitoraggio rigoroso dello stato di salute delle prostitute farebbe scendere moltissimo i casi di malattie contagiose a trasmissione sessuale), fino a quelli teologici – ovvero, la netta condanna della prostituzione da parte dei rappresentanti della Chiesa Ortodossa, condanna che fa spesso ricorso non soltanto alla lettera e allo spirito delle scritture religiose, ma anche ad argomentazioni facilmente riconducibili alla logica di discorsi patriottardi o perfino nazionalisti. Il ricorso ad una retorica che intreccia in maniera aleatoria il sostrato ortodosso con un’identità sociale e nazionale discutibile, eventi e personaggi storici, innestati su una dose di sfiducia, scetticismo e delusione generate dalle realtà socio-economiche, non è sempre facile da comprendere e assimilare, implica un coefficiente abbastanza elevato di ambiguità al livello del ricettore, e crea infine ansia e insicurezza.
Indipendentemente dal modo in cui potrà strutturarsi ed evolvere il discorso, innanzitutto politico, circa la legalizzazione o no della prostituzione, al di là delle posizione che saranno espresse da diverse istituzioni e organizzazione, tanto governative quanto della società civile, la risposta deve riguardare in primo luogo le cause che rendono possibile il fenomeno di tratta (se parliamo di prostituzione connessa al traffico di persone); soprattutto le cause economiche, ma anche quelle riguardanti il livello sociale e culturale che possono diventare vittime della tratta. La soluzione, sempre più difficile, a questo genere di problemi dovrebbe essere una delle principali preoccupazioni del governo romeno. I ruoli dovranno essere ben delimitati, tenendo presenti le sfere di competenza e responsabilità degli attori coinvolti. È ovvio che la prevenzione del traffico di esseri umani può essere realizzata nel modo più efficace tramite gli sforzi congiunti di istituzioni e organizzazioni non governative, mentre la lotta al fenomeno è di competenza esclusiva delle strutture specializzate del Ministero dell’Interno. Ugualmente, l’assistenza alle vittime si è rivelata più efficiente là dove i servizi sono forniti dalle ONG, con sostegno finanziario da parte dello Stato.
Oltre gli ostacoli
Luci e ombre nella situazione della donna nella Romania di oggi
di Mihaela Iordache (fonte: Osservatorio Balcani)
Per il regime di Ceauşescu erano innanzitutto madri e “lavoratrici instancabili”. Oggi, spesso ancora soggette a violenze in famiglia, le donne romene tentano di farsi strada in politica ed economia, superando gli ostacoli di una società ancora fortemente maschilista
Ogni due minuti in Romania una donna viene picchiata. Queste le statistiche di una società dove la violenza si impara innanzitutto in famiglia e dove la prima causa di atteggiamenti violenti è rappresentata dall’alcolismo.
La violenza in famiglia, secondo varie Ong che si occupano del problema, non conosce differenze di classe sociale, visto che le donne sono aggredite, picchiate e umiliate al di là dello status socio-economico e culturale. Alle radici della violenza, infatti, c’è spesso un problema di autorità e esercizio del controllo.
Un sondaggio del 2008 rivelava che gli uomini diventano violenti dopo cinque anni di matrimonio, mentre nel 16% dei casi i primi casi di violenza compaiono addirittura prima del matrimonio. Il 26% delle donne non prendeva alcuna misura contro il marito violento, il 17% si limitava a sperare in un futuro miglioramento della situazione, mentre il 14% delle intervistate dichiarava di essere ancora innamorata dell’aggressore.
Molti casi di violenza sulle donne sono raccapriccianti: svegliate dal sonno e prese a pugni e calci, minacciate con coltello, tutto davanti ai bambini che a loro volta subiscono traumi psicologici, ma anche fisici destinati a segnarli per tutta la vita.
Qualche anno fa sulla stampa è finito un caso i cui protagonisti erano persone molto note al grande pubblico: lei una giornalista della tv, lui deputato nonché ex ministro della Sanità. La giornalista aveva trovato il coraggio di recarsi dalla polizia e denunciare il marito per averla picchiata ripetutamente, colpendola a calci e pugni. Sui forum dei giornali online, però, la curiosità dei lettori si concentrò sui motivi delle aggressioni, e non sulla violenza in sé. Come se ci fossero motivi che possono giustificare un comportamento del genere. A quanto pare, sono in molti a pensarla così nella Romania di oggi.
Ai tempi del regime le donne avevano perso il controllo della propria femminilità a favore dell’onnipresente partito, che decideva su gravidanze, abbigliamento e comportamenti sociali. Condannata a colori smorti, e a una tuta che non la differenziava dall’uomo, la donna doveva essere pronta ad affrontare qualsiasi tipo di lavoro. L’8 marzo, festa internazionale della donna, era ricordato soprattutto come la festa della mamma, “lavoratrice instancabile”. Poi, negli anni del suo crepuscolo, il partito aveva deciso di mettere in atto un piano per promuovere le donne nelle cariche pubbliche.
Arrivata la democrazia, una crisi d’identità profonda ha scosso la società. I film romeni di questi anni sono riusciti a raccontarlo brillantemente, tanto da aggiudicarsi importanti premi internazionali. La donna romena, madre e moglie, sa che spesso deve cavarsela da sola. E per disperazione emigra. Sono emigrate non solo donne con un diploma, ma anche quelle con una laurea in tasca, per fare le badanti e le colf in un altro paese.
C’è poi un triste primato della Romania nell’UE: quello di essere il principale paese fornitore per il mercato della prostituzione. Le cause sono molteplici. Oltre alla povertà, alla falsa promessa di un lavoro onesto, c’è anche il passato violento in famiglia e un futuro che si prefigura altrettanto difficile.
Con una speranza di vita di 77,2 anni (penultimo posto in Europa, dopo le bulgare) le romene sono anche quelle che lavorano più di tutte le altre. Secondo uno studio realizzato dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro “Living and Working in Europe”, le romene, tra lavoro e casa, sono impegnate 78 ore alla settimana, mentre in altri paesi le donne si limitano a 60 ore.
“La Romania è un paese che va avanti per forza d’inerzia. Le donne non hanno scoperto che le responsabilità della casa e la cura dei bambini possono essere divise con il marito”, spiega sulle pagine di Evenimentul Zilei la psicologa Adriana Dragoş.
Scarsa inoltre la presenza delle donne nella politica romena. Una conseguenza diretta del fatto che la “Romania è ancora una società patriarcale, tradizionalista e misogina”, come si sottolinea in un rapporto dell’ANES, l’Agenzia nazionale per le pari opportunità. E così, invece di conoscere un progresso in materia di rappresentanza politica, rispetto al periodo 2004-2008 il numero delle donne in parlamento è diminuito, toccando il 9,7% (negli altri paesi europei la media è del 24%).
L’unica nota positiva è la conquista della presidenza della Camera dei deputati da parte di Roberta Anastase (34 anni). Nel governo di Bucarest attualmente c’è un solo ministro donna, Elena Udrea, che non è riuscita ad allontanarsi dallo stereotipo della donna che fa carriera grazie alla propria avvenenza fisica.
Nonostante le difficoltà e le barriere di ogni tipo, però, in Romania ci sono anche molte donne di successo. Caso unico in Europa, le donne rappresentano la maggioranza nel sistema giudiziario. Secondo i dati forniti a inizio dell’anno dal Consiglio Superiore della Magistratura, dei 3928 giudici ben 2855, cioè due terzi, sono donne. Anche nel caso dei procurori oltre la metà sono donne.
Giorno dopo giorno le donne si fanno sempre più spazio nel mondo degli affari. Si stima che oltre un terzo degli affari nel settore privato sia controllato da donne (proprietarie o amministratrici). Ma a livello mondiale la Romania occupa solo la 70-esima posizione in questo settore. Il terreno più fertile per le imprenditrici romene è la capitale Bucarest, dove controllano oltre 20% degli affari, mentre in coda resta il distretto di Giurgiu, nel Sud del paese. Nel settore pubblico, però, il controllo è saldamente nelle mani degli uomini con la percentuale schiacciante del 99%, spiega Luminiţa Sambotin, rappresentante della Coalizione delle associazioni di imprenditoria femminile.
Nel “Top 100 Donne di Successo” del 2008, elaborato dalla rivista Capital, oltre un terzo delle nominate hanno un proprio business. Altre 13 donne sono manager di istituzioni finanziario-bancarie. Sono state incluse nella classifica anche rappresentanti del mondo artistico, come le attrici Anamaria Marinca e Laura Vasiliu, protagoniste della pellicola di Cristian Mungiu “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”, Palma D’oro a Cannes nel 2007.
Tra i nuovi nomi entrati nella classifica, che rappresenta la più ambita “competizione” per le donne di successo in Romania, anche professioniste che provengono dall’ambito degli organismi internazionali come Daniela Popescu, membro della Commissione Nazionale per l’UNESCO e Gabriela Massaci, direttrice dell’Istituto Culturale Romeno di Londra.
Rosia Montana: il silenzio è d’oro
Segnaliamo qui di seguito un recente articolo sul blog “Catrafuse” (del nostro amico italiano che vive a Timisoara) sul controverso progetto riguardante l’estrazione dell’oro nella zona di Rosia Montana, in Transilvania.
“Rosia Montana da qualche anno è minacciata dal progetto di un dubbio consorzio romeno-canadese la Gold Corporation che ha ottenuto la concessione di questa e altre miniere.
In grosse linee ecco il futuro dorato ipotizzato per Rosia Montana: si aprirebbe la più grande miniera a cielo aperto d’Europa da dove verrebbero estratte, in 15 anni, circa 300 tonnellate d’oro e 1600 tonnellate d’argento in quattro giacimenti ciascuno esteso su 100 ettari. Questa produzione comporterebbe l’estrazione di una quantità di oltre 220 milioni di tonnellate di minerale grezzo. La roccia sterile andrebbe a costituire due zone di deposito di circa 70 ettari ciascuna. I fanghi risultanti dal processo di estrazione dell’oro e dell’argento – processo realizzato utilizzando cianuro – verrebbero accumulati in un bacino di decantazione (una sorta di lago artificiale) con una capacità di 250 milioni di tonnellate e una superficie di 100 ettari (600 secondo altre fonti). Il tutto sarebbe contenuto da una diga alta 180 metri costruita con la roccia sterile. Il progetto coinvolgerebbe il 38% della superficie del comune di Rosia Montana. 1800 persone dovrebbero essere trasferite, ma potremmo dire deportate. Più di 700 abitazioni sarebbero demolite. Lo stesso accadrebbe a chiese, cimiteri e agli importanti scavi archeologici della zona. Va ricordato che l’affare dovrebbe funzionare per circa 15 anni, poi, una volta seccati i giacimenti, i canadesi se ne andrebbero a casa loro e il cianuro rimarrebbe a casa nostra. Un altro aspetto curioso della vicenda è che tutti i contratti di concessione sono coperti dal segreto di stato”.
Il testo integrale dell’articolo può essere letto qui. Le foto provengono dal sito Endangered Places: Rosia Montana.
Melis e Touadì: “Moratoria Ministero dell’Interno su romeni e bulgari, provvedimento inutile”
Presentata oggi dai deputati Guido Melis e Jean Leonard Touadì un’interrogazione parlamentare
In un comunicato stampa di oggi, i deputati del PD, Guido Melis e Jean Leonard Touadì, ricordano che la Circolare n. 7881 del 3 dicembre 2009 del Ministero dell’Interno ha prorogato il regime vincolistico sull’accesso al mondo del lavoro per i cittadini romeni e bulgari anche per l’anno 2010, denunciando che, in pratica, “i cittadini di queste due importanti comunità, appartenenti all’Europa unita, non possono accedere liberamente a tutte le occupazioni”. Infatti, il regime transitorio per i cittadini neocomunitari (si tratta degli allargamenti dell’UE che hanno coinvolto i Paesi ex-comunisti) consente solo l’accesso ad alcune occupazioni, mentre per molte altre resta l’obbligo di un’autorizzazione specifica.
I due deputati osservano che tale disposizione, “in contrasto con quanto si fa in altri Paesi (per esempio in Spagna), è in palese contraddizione con le promesse del nostro Governo e con gli interessi dell’economia italiana a integrare pienamente questi lavoratori, combattendo le forma di lavoro nero che derivano dall’attuale regime”.
“Non solo”, continuano i due parlamentari, “ma è un provvedimento assolutamente inutile perché non c’è alcun vincolo di numeri e nessuna verifica delle competenze professionali. Più che altro serve a creare un ulteriore intoppo burocratico al sistema delle assunzioni per le imprese e per i lavoratori. Per non parlare dei costi che gravano sugli uffici e dei ritardi che ne conseguono.”
“Abbiamo chiesto perciò al Ministro, in un’apposita interrogazione depositata questa mattina, se non sarebbe opportuno rimuovere immediatamente questa disposizione assurda, nonché dannosa per la nostra economia,” – concludono Melis e Touadì.
***
Testo dell’interrogazione:
Interrogazione a risposta orale
Guido Melis, Jean Léonard Touadi
Al Ministro dell’Interno
– Per sapere –
premesso che:
– per tutto il triennio 2007, 2008 e 2009 il governo italiano, relativamente all’accesso al mercato del lavoro dei cittadini comunitari bulgari e romeni, si è avvalso della facoltà di adottare un regime transitorio;
– in tale regime era previsto che l’accesso di tali lavoratori fosse libero solo per alcuni settori (agricoltura e turismo alberghiero, lavoro domestico ed assistenza alla persona, edilizia, metalmeccanica, dirigenziale ed alimentare qualificato, lavoro stagionale) mentre per i restanti settori produttivi l’assunzione dei lavoratori delle due nazionalità citate doveva obbligatoriamente avvenire attraverso la richiesta di nulla osta allo Sportello Unico per l’Immigrazione;
– una precedente comunicazione della Direzione dei Servizi Demografici del Ministero dell’Interno, indirizzata agli uffici anagrafe dei Comuni, aveva annunciato però che dal 1° gennaio 2008 sarebbe scaduta la vigenza del regime transitorio e si sarebbe dunque adottata la piena accessibilità a tutti i settori;
– al contrario, la Circolare n. 7881 del 3 dicembre 2009 del Ministero dell’Interno proroga il regime vincolistico anche per l’anno 2010 e ciò nonostante le assicurazioni circa il suo superamento fornite dal Governo italiano alla Comunità Europea;
– tale provvedimento, di carattere amministrativo, costituisce un ostacolo a che i cittadini romeni e bulgari possano liberamente spostarsi ed avviare rapporti di lavoro sul territorio nazionale italiano;
– d’altra parte è interesse dell’Italia regolarizzare con il massimo delle facilitazioni l’integrazione dei cittadini comunitari, anche in ragione della più volte annunciata opposizione del Governo italiano al lavoro in nero degli immigrati;
– inoltre un cittadino romeno o bulgaro che lavora in regola paga le tasse ed i contributi allo Stato Italiano e quindi concorre alla pari con gli italiani al budget dello stato;
– d’altra parte l’autorizzazione richiesta non è sottoposta ad alcun vincolo quantitativo (tetti o quote) né alla verifica di particolari requisiti, si risolve in un procedimento quasi automatico e dunque in definitiva si traduce solamente in un inutile aggravio burocratico, accrescendo il lavoro degli uffici, con costi e ritardi a tutti evidenti, e ritardando l’inserimento dei cittadini comunitari delle due nazionalità citate nel complesso del mondo del lavoro italiano:
– né si può infine trascurare che col 2013 tali restrizioni saranno comunque vietate dalle norme europee,
per sapere
se non ritenga il Ministro di dover ritirare la circolare suddetta, realizzando, così come avviene da tempo in altri paesi europei (per esempio la Spagna, la cui situazione può essere assimilata all’Italia per la presenza in quel Paese di una consistente comunità romena), il pieno accesso senza limitazioni né ostacoli dei cittadini comunitari, romeni e bulgari all’intero mercato del lavoro.
13.01.2009
(fonte: ufficio stampa dell’on. Melis)
Anche Gesù era un migrante
Papa: Gesù era uno di loro, rispetto diritti. No a rimpatrio minori rifugiati, scuola e integrazione per tutti
di Domitilla Conte, ANSA
Il villaggio globale chiude sempre più porte e la Chiesa non sta a guardare, specialmente di fronte alla sofferenza dei minori migranti – messaggio odierno del Papa per la 96-esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato.
CITTÀ DEL VATICANO, 27 nov. 2009 – L’immigrato è una persona “con diritti fondamentali inalienabili da rispettare sempre e da tutti”, specialmente se bambino, o comunque minorenne. Pari diritti e pari opportunità rispetto ai residenti, nella scuola e nel lavoro. Il monito del Papa giunge quasi in contemporanea con la proposta della Lega di porre un tetto alla cassa integrazione per i lavoratori extracomunitari, proposta preceduta da molti altri segnali di chiusura, in Italia e fuori, ricordati anche questa mattina anche dal presidente del Pontificio consiglio per i migranti, mons. Antonio Maria Vegliò. I respingimenti praticati anche dall’Italia, ma anche la proposta di scuole separate in Germania, il referendum anti-minareti in Svizzera, l’operazione “White Christmas” di Coccaglio, nel Bresciano.
I minori migranti vanno accolti e difesi perché due volte più vulnerabili, e perché anche Gesù, da bambino, fu un migrante e sarebbe oggi un rifugiato, essendo scappato con Giuseppe e Maria in Egitto dalla furia di Erode. Vegliò ricorda che i minori non accompagnati non possono essere mai rimpatriati, secondo le norme internazionali, anche se “tale diritto, come molti altri, non è sempre rispettato”. Pronta la risposta del ministro dell’Interno, Roberto Maroni: “L’Italia non rimpatria i minori non accompagnati, questa non è la realtà italiana”. Il fenomeno emigrazione – ammette papa Ratzinger – “impressiona per il numero di persone coinvolte, per le problematiche sociali, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale”. Il migrante, però – ha affermato con forza il Papa citando la sua enciclica sociale Caritas in Veritate – “è una persona umana con diritti fondamentali inalienabili da rispettare sempre e da tutti”, soprattutto se minore. Sarà quest’ultimo aspetto il tema della Giornata e il pontefice ne approfondisce ogni risvolto ricordando che la Convenzione dei Diritti del bambino “afferma con chiarezza che va sempre salvaguardato l’interesse del minore”, ma che “purtroppo nella realtà questo non sempre avviene”. Abbandono e sfruttamento colpiscono sempre più bambini e ragazzi in ogni continente, per questo occorre proteggerli e accoglierli quando cercano rifugio, favorendo “il loro sviluppo fisico, culturale, spirituale e morale”.
La parola d’ordine è integrazione e prevenzione del disagio, che può colpire anche le seconde generazioni di immigrati. A tutti – dice il Papa – “è importante che sia data la possibilità della frequenza scolastica e del successivo inserimento nel mondo del lavoro”. Deve poi essere “facilitata l’integrazione sociale grazie a opportune strutture formative e sociali”. Il Papa fa appello ai cristiani che attraverso parrocchie e associazioni “compiono grandi sforzi” per aiutare i migranti, ma soprattutto a quelli che non lo fanno, affinché prendano “consapevolezza della sfida sociale” che pone la condizione dei minori migranti e rifugiati. L’ultimo appello è per i governi e le istituzioni internazionali, perché promuovano iniziative di sostegno. Una “voce nel deserto” destinata a rimanere inascoltata, ha detto qualcuno a mons. Vegliò che commentava il messaggio del Papa. “Il Vangelo va annunciato anche se molti non lo accettano” – ha risposto Vegliò, che ha anche negato che vi siano “controversie” con la Lega. Ed è giusto, gli ha fatto eco il neosottosegretario del Pontificio consiglio, il tanzaniano mons. Novadus Rugambwa, “alzare la voce anche nel deserto, affinché migranti e rifugiati siano considerati un giorno persone con diritti e accesso alla promozione sociale”.
No al razzismo – il messaggio di FIRI
No al razzismo – Manifestazione Nazionale a Roma
http://www.17ottobreantirazzista.org/
FIRI ha aderito alla Manifestazione e ha inviato al Comitato Organizzativo il seguente messaggio:
Il razzismo e la xenofobia albergano, come sentimenti potenziali, in ogni individuo umano e in ciascuna società di ogni tempo o luogo. E’ compito della società civile lottare contro leggi inumane o ingiuste ed è compito dei governanti (parlamento + esecutivo) quello di abrogarle.
In parallelo, occorre costruire percorsi di prevenzione degli scontri sociale, lavorare per un clima di comprensione e rispetto che non si traduca in un generico, auto colpevolizzante ed impotente buonismo, ma in leggi e prassi consolidate di accoglienza migrante e del minoritario (e qui non ci riferiamo solo alle entità etniche), in progetti funzionanti di integrazione, in procedure burocratiche snelle a favore dei migranti e soprattutto a favore dei più vulnerabili di loro (ovvero: profughi, sfollati, donne, bambini, gruppi discriminati ecc.).
FIRI ritiene che i cittadini comunitari presenti in Italia, in particolare i romeni, devono restare sensibili e vigili sulla questione – diventato negli ultimi tempi un reale allarme – del razzismo, della xenofobia e dell’omofobia, anche se apparentemente lo status di cittadini UE li mette al riparo da abusi, atti di discriminazione e linciaggio mediatico. L’esperienza del biennio 2007-2009 dimostra infatti il contrario, mentre la tendenza attuale delle politiche sociali, sull’immigrazione e sulla “sicurezza”, non sembra andare nella direzione di una soluzione condivisa dei malintesi e del malcontento sociale, bensì in quella del peggioramento del clima culturale italiano, con conseguenti e frequenti “sfoghi” sociali, anche di natura xenofoba o razzista.
FIRI, quale associazione culturale apolitica e apartitica, ritiene che la lotta alle discriminazioni non sia una prerogativa di una certa parte dello spettro politico, ma ma è una questione che riguarda tutti i cittadini abitanti in un paese democratico dell’Unione Europea. Da questo punto di vista, noi non ci facciamo illusioni: il gusto amaro dei provvedimenti e dei discorsi anti-romeni proviene da governi nazionali di centro-destra (dal 2008) ma anche di centro-sinistra (novembre 2007, decreto Amato).
Pertanto, FIRI si augura che la società civile italiana, e in particolare le associazioni che lottano per i diritti umani, le personalità e le entità politiche, gli enti e le istituzioni che hanno come finalità tale lotta, le chiese e i mass-media – portino avanti l’opposizione alla xenofobia legalizzata.
Consiglio Direttivo FIRI
Ora l’Italia è più cattiva
di Adriano Sofri
(La Repubblica, venerdì 3 luglio 2009)
Variando Pietro Nenni (“Da oggi siamo tutti più liberi”) il governo ieri ci ha dichiarati tutti più sicuri. Da ieri, siamo tutti più insicuri, più ipocriti e più cattivi. Più insicuri e ipocriti, perché viviamo di rendita sulla fatica umile e spesso umiliata degli altri.
Infermieri e domestiche e badanti di vecchi e bambini, quello che abbiamo di più prezioso (e di prostitute, addette ad altre cure corporali), e lavoratori primatisti di morti bianche, e li chiamiamo delinquenti e li additiamo alla paura.
Ci sono centinaia di migliaia di persone che aspettano la regolarizzazione secondo il capriccio dei decreti flussi, e intanto sul loro lavoro si regge la nostra vita quotidiana, e basta consultare le loro pratiche di questura per saperne tutto, nome cognome luogo di impiego e residenza, nome e indirizzo di chi li impiega.
La legge, vi obietterà qualcuno, vuole colpire gli ingressi, non chi c’è già: non è vero. La legge vuole e può colpire nel mucchio. È una legge incostituzionale, non solo contro la Costituzione italiana, ma contro ogni concezione dei diritti umani, e punisce una condizione di nascita – l’essere straniero – invece che la commissione di un reato. Dichiara reato quella condizione anagrafica. Ci si può sentire più sicuri quando si condanna a spaventarsi e nascondersi una parte così ingente e innocente di nostri coabitanti? Quando persone di nascita straniera temano a presentarsi a un ospedale, a far registrare una nascita, a frequentare un servizio sociale, o anche a rivolgersi, le vittime della tratta, ad associazioni volontarie e istituzionali (forze di polizia comprese) impegnate a offrir loro un sostegno. Quando gli stranieri temano, come avviene già, mi racconta una benemerita visitatrice di carceri, Rita Bernardini, di andare al colloquio con un famigliare detenuto, per paura di essere denunciato? Lo strappo che gli obblighi della legge e i suoi compiaciuti effetti psicologici e propagandistici provoca nella trama della vita quotidiana non farà che accrescere la clandestinità, questa sì lucrosa e criminale, di tutti i rapporti sociali delle persone straniere. È anche una legge razzista?
- Contestazione in aula da parte dei parlamentari dell’Idv
Si gioca troppo con le parole, mentre i fatti corrono. Le razze non esistono, i razzisti sì. Questa legge prende a pretesto i matrimoni di convenienza per ostacolare fino alla persecuzione i matrimoni misti, ostacola maniacalmente l’unità delle famiglie, fissa per gli stranieri senza permesso di soggiorno una pena pecuniaria grottesca per la sua irrealtà – da 5 a 10 mila euro, e giù risate – e in capo al paradosso si affaccia, come sempre, il carcere. Carcere fino a tre anni per chi affitti una stanza a un irregolare: be’, dovremo vedere grandiose retate. Galera ripristinata – bazzecole, tre anni – a chi oltraggi un pubblico ufficiale: la più tipicamente fascista e arbitraria delle imputazioni. Quanto alle galere per chi non abbia commesso alcun reato, salvo metter piede sul suolo italiano, ora che si chiamano deliziosamente Centri di identificazione e di espulsione, ci si può restare sei mesi! Sei mesi, per aver messo piede.
Delle ronde, si è detto fin troppo: e dopo aver detto tanto, sono tornate tali e quali come nella primitiva ambizione, squadre aperte a ogni futuro, salvo il provvisorio pudore di negar loro non la gagliarda partecipazione di ammiratori del nazismo, ma la divisa e i distintivi.
Tutto questo è successo. Ogni dettaglio di questo furore repressivo è stato sconfessato e accantonato nei mesi scorsi, spesso per impulso di gruppi e personalità della stessa maggioranza, e gli articoli di legge sono stati ripetutamente battuti nello stesso attuale Parlamento introvabile. È bastato aspettare, rimettere insieme tutto, e nelle versioni più oltranziste, imporre il voto di fiducia – una sequela frenetica di voti di fiducia – e trionfare. Un tripudio di cravatte verdi, ministeriali e no, con l’aggiunta di qualche ex fascista berlusconizzato. (Perché non è vero che il berlusconismo si sia andato fascistizzando: è vero che il fascismo si è andato berlusconizzando). La morale politica è chiara. Il governo Berlusconi era già messo sotto dalla Lega (“doganato”: si può dire così? Doganato dalla Lega). Ora un presidente del Consiglio provato da notti bianche e cene domestiche è un mero ratificatore del programma leghista. Ma la Chiesa cattolica, si obietterà, ha ripetuto ancora ieri il suo ripudio scandalizzato del reato di clandestinità e la sua diffidenza per le ronde e in genere lo spirito brutale che anima una tal idea della sicurezza. Appunto. Berlusconi è politicamente ricattabile, ma non da tutti allo stesso modo. Dalla Lega sì, dalle commissioni pontificie no, perlomeno non da quelle che si ricordano che il cristiano è uno straniero.
Un ultimo dettaglio: le carceri. Mai nella storia del nostro Stato si era sfiorato il numero attuale di detenuti: 64 mila. Dormono per terra, da svegli stanno ammucchiati. La legge riempirà a dismisura i loro cubicoli. Gli esperti hanno levato invano la loro voce: “Le carceri scoppiano, c’è da temere il ritorno della violenza, un’estate di rivolte”. Può darsi. Ma non dovrebbe essere lo spauracchio delle rivolte, che non vengono, perché nemmeno di rivolte l’umanità schiacciata delle galere è oggi capace, a far allarmare e vergognare: bensì la domanda su quel loro giacere gli uni sugli altri, stranieri gli uni agli altri. La domanda se questi siano uomini.