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Archive for agosto 2009

Al via il Festival Internazionale George Enescu

31 agosto 2009 Commenti disabilitati

30 agosto – 26 settembre

Inaugurato nel 1958 per riconoscere il genio del grande compositore romeno, il Festival intitolato a George Enescu, organizzato ogni due anni e sospeso nel 1971 dal regime comunista – è giunto alla 19esima edizione. Dal 30 agosto fino al 26 settembre, Bucarest ed altre quattro grandi città – Sibiu, Braşov, Iaşi e Cluj – riunisce circa 185 artisti, orchestre e direttori consacrati che offrono al pubblico momenti speciali. “Approfittate di quello che vi offre il festival nelle prossime settimane. Vi assicuro che riceverete molto più di quanto avete dato”, ha esortato i presenti all’Opera Nazionale di Bucarest, Ioan Hollender, il direttore del Festival Enescu e dell’Opera di Stato di Vienna. Nel programma dell’evento inaugurato alla presenza di numerose personalità della vita politica e culturale – concerti sinfonici, camerali, recital, spettacoli di opera e balletto, simposi di musicologia e mostre d’arte.

Come vuole la tradizione, il festival è iniziato con l’opera “Edipo” di Enescu, quest’anno in una coproduzione romeno-francese, con una scenografia semplice, ma espressiva, raffigurante un’agora antica. E’ stato un grande successo di pubblico e di critica questa rappresentazione all’Opera Nazionale di Bucarest.

Sul cartellone del festival, centinaia di creazioni appartenenti a 47 compositori tra cui Enescu, Beethoven, Bach, Brahms, Bela Bartok, Ceaikovski o Ravel, ma anche compositori contemporanei. I concerti sono organizzati in serie tematiche – la Musica romena del XXIesimo secolo, Enescu e i suoi contemporanei, Grandi orchestre del mondo, Concerti da camera, Concerti notturni, Spettacoli operistici e di balletto, e Temi classici in arrangiamenti moderni. Il festival include anche l’omonimo concorso internazionale di creazione e interpretazione. All’attuale edizione, i concerti saranno sostenuti in vari luoghi di Bucarest e a Iaşi, Cluj, Braşov e Sibiu. Nella prima settimana si svolgerà il Concorso di creazione e interpretazione, che riunisce 300 partecipanti di oltre 30 Paesi. Tra i partecipanti – artisti, orchestre e direttori di tutto il mondo, come il violinista americano Joshua Bell, la pianista francese Helène Grimaud, l’Orchestra Filarmonica di Londra, la Filarmonica di Radio France, l’Orchestra da Camera di Vienna. La musica del grande compositore Enescu, nell’arrangiamento del pianista jazz di origine romena Lucian Ban, che vive da un decennio a New York, sarà presentata in un concerto speciale “Enesco Re-Imagined”, sostenuto da otto cantanti jazz di New York. Nell’ambito del festival si svolgeranno anche spettacoli di opera e balletto, e una mostra di arte figurativa.

Fonte: Radio Romania Internazionale.

Altri dettagli, comprese le partecipazioni italiane, su AmadeusOnline.

Sito ufficiale del Festival: http://www.festivalenescu.ro/

Sala di concerti dell'Ateneo Romeno

Sala di concerti dell'Ateneo Romeno

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Minoranza italiana in Romania: una richiesta d’aiuto

17 agosto 2009 Commenti disabilitati

di Horia Corneliu Cicortas

Navigando recentemente in rete, ho scoperto una lettera particolare; un documento molto interessante  per chi è sensibile al tema delle minoranze e, in particolare, alle sorti della comunità italiana in Romania, poco nota tanto agli abitanti della Romania quanto agli stessi italiani d’Italia. Secondo le stime attuali, in Romania vivono circa 220 mila italiani: quasi tutti però, sono arrivati nei vent’anni successivi alla caduta del regime comunista. Gli italiani di oggi sono molto numerosi nel Banato (zona di Timisoara) e nella Transilvania, ma si trovano in tutte le regioni della Romania, là dove hanno creato piccole o medie imprese e numerosi bar, pizzerie e ristoranti.

Accanto agli italiani di recente immigrazione, vi è però anche una piccola minoranza italiana storica, risalente alla fine dell’Ottocento e ai primi decenni del Novecento. Cento anni or sono, italiani provenienti da alcune regioni allora povere (in particolare, dal Veneto e dal Friuli), migravano infatti in Romania per lavorare nelle miniere, sui cantieri delle ferrovie o nell’edilizia. Su questo tema è stato del resto pubblicato un libro recente (Veneti in Romania, a cura di R. Scagno, Longo Editore, Ravenna, 2008). Secondo ricerche storiche, tra la fine dell’800 e la seconda guerra mondiale vi si trasferirono 130.000 italiani.

Oggi la minoranza italo-romena ha, come altre minoranze del Paese tutelate dalla Costituzione del 1991, un rappresentante permanente nel Parlamento di Bucarest. Gli italiani “storici” hanno, al pari degli italiani “recenti”, diverse associazioni di tutela culturale e identitaria (per esempio, ROASIT, ovvero l’Associazione degli italiani della Romania), dato anche il fatto che in seguito all’instaurazione del comunismo sovietico nel 1948, gli italiani che avevano deciso di restare in Romania hanno dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana. Tra la piccola minoranza italiana storica e la numerosa comunità di piccoli imprenditori di oggi non sembra però ci siano al momento legami particolari, anche in virtù delle rispettive carratteristiche ed esigenze, che sono in buona parte diverse.

Ad esempio, nel distretto di Tulcea, nel sud-est del Paese, vive una vecchia comunità italiana che condivide molti dei problemi con cui si confrontano la maggior parte delle comunità rurali situate in aree remote o poco sviluppate della Romania, rischiando di fatto l’estinzione per spopolamento e perdita della propria identità. In questo senso, basta leggere la seguente lettera, inviata da un anziano parroco locale alla parroco della chiesa italiana di Bucarest, lettera che è stata pubblicata sul sito di quest’ultima proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle sorti della comunità italiana. Per questo motivo, FIRI non può ignorarla. Un’opportunità per riflettere e – augurabilmente – per dare una mano.

Lettera del parroco di Greci

Per argomenti simili trattati sul sito web di FIRI, si veda anche https://firiweb.wordpress.com/2009/04/16/quando-erano-gli-emigrati-italiani-ad-essere-criminalizzati/

“Intrusi”, un libro sull’Italia multiculturale

16 agosto 2009 Commenti disabilitati

Ramona Parenzan, Intrusi. Vuoto comunitario e nuovi cittadini, Ombre Corte Editore, Verona, 2009.

Parenzan

Qui di seguito, l’intervista di Feten Fradi all’autrice Ramona Parenzan (fonte: Repubblica – Metropoli), studiosa di interculturalità.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro?

Il libro è nato anche dal desiderio di coniugare le mie passioni letterarie e filosofiche con la mia pratica quotidiana di operatrice interculturale. Da anni infatti lavoro nel mondo dell’interculturalità conducendo laboratori nelle scuole e insegnando italiano a minori e adulti stranieri. Grazie a questi lavori, infatti, ho potuto incontrare e frequentare amici migranti ed esponenti di associazioni di mediatori linguistico culturali e di migranti in lotta che mi hanno “suggerito” e ispirato molti dei temi presenti nel libro. Nella prima parte del testo sono costanti i riferimenti all’area balcanica. Questo perché Serbia Bosnia e Albania (ma anche la cultura rom), sono “confini” geografici, culturali e artistici che ho amato attraversare più spesso.

Perché ha scelto questo titolo e chi sono gli “intrusi” nella società italiana di cui parla?
Il titolo è ispirato da “L’intruso”, un testo di un filosofo francese contemporaneo Jean Luc Nancy che nel raccontare l’esperienza vissuta del suo trapianto cardiaco, si interroga sulle trasformazioni che le categorie di identità e di estraneità subiscono quando il corpo entra nel regno della biopolitica. In questo caso Nancy offre nel suo libro un’accezione assolutamente positiva del termine intruso e del concetto di intrusione: il cuore trapiantato salva l’ospite da una morte imminente. Nel mio libro mi piaceva utilizzare la stessa accezione positiva del termine intruso riferendomi in questo caso al migrante e alla sua potenza “vitale” e intrusiva e contaminante nella nostra società, nelle nostre città lontane e infinite dei piccoli-grandi microcosmi dove singolarità plurali si condizionano costantemente e nello stesso tempo si ostinano a tacere circa questo contagio se non a temerlo e a ostacolarlo apertamente con leggi assurde e xenofobe.

Quali sono i messaggi che vuole trasmettere ai lettori del libro?
Il messaggio è quello di non temere l’articolazione delle lingue, dei modi di dire, dei pensieri e delle diverse scritture (quella artistica, politica filosofica…). Per questo motivo nel testo è presente una sorta di partizioni di voci diverse sul tema della migrazione e del fare comunità. La parola diretta dei migranti (attraverso citazioni e interviste) intende rompere il monologo di tutti coloro che scrivono sui migranti senza averli mai interpellati direttamente. Il libro vuole si offre anche come un invito esplicito a reinventare insieme concetti ormai abusati – e quindi vuoti – di cittadinanza e comunità, per ricrearli e dotarli di nuovo senso e nuove pratiche attraverso processi di negoziazione reciproca e di pensiero condiviso ma anche attraverso processi di politica dal basso.

Come ha scelto i suoi testimoni?
Le persone intervistate e gli scrittori/filosofi citati nel libro sono autori che leggo e amo da anni. Altri ancora, soprattutto nella parte delle interviste, sono amici con i quali ho condiviso progetti letterari e politici.

Quanto è importante l´idea di “comunità” in una società di emigrazione?
Oggi si rende necessario più che mai ragionare insieme sul concetto di una comunità aperta inoperosa nel senso che non vuole fare opera, costruire codici fissi e regole definite una volta per tutte. Una comunità diasporica in costante divenire, frutto di processi di articolazione e di ascolto reciproco. La migliore immagine della comunità di oggi è la città contemporanea: luogo di mescolanze, labirinto senza fine, gioco di innesti e mercato incessante di opportunità, dove tutto pare accadere in modo inatteso e insperato. Con i suoi luoghi aperti e sbarrati, nascosti e accessibili, la città è infatti la metafora migliore per descrivere l’apertura comunitaria, le sue ambivalenze, le mille contraddizioni ma anche la sua infinita ricchezza.

Quanto conta la comunità per l’immigrato?
L’immigrato spesso ha bisogno di appartenenza e quando questo non è possibile si aggrappa al ricordo nostalgico di comunità d’origine spesso solo immaginate che lo aiutano ad affrontare l’urto degli eventi. Altre volte invece (o nello stesso tempo) cerca di ricostruisce in diaspora comunità nuove dove poter articolare nuovi legami e nuove identità.

Quali sono le comunità maledette e quelle terribili?
Le comunità maledette sono quelle chiuse dove si vogliono ripristinare antichi vincoli di sangue lingua e cultura a costo di uccidere per questo persone e pratiche di vita che ormai si articolavano insieme meravigliosamente. Le comunità terribili sono le comunità in rivolta come quelle delle “banlieux” parigine (ma anche delle nostre periferie) dove terribile non è visto in chiave negativa, naturalmente

Perché ha scelto il caso balcanico parlando di comunità maledette?
I Balcani, le loro recenti vicende, sono una metafora potente per comprendere cosa accade quando si evoca troppo spesso e con violenza inaudita il desiderio di bandiere, confini, lingue proprie, in nome di una presunta difesa da ogni genere di contaminazione esterna. La disgregazione dei territori della ex Jugoslavia ci insegna molto su come sia rischioso oggi il desiderio mortifero di comunità chiuse e potenti ma anche di quanto sia vano e nocivo combattere e scongiurare ogni forma di meticciato e contagio culturale.

Perché i centri detti di accoglienza sono secondo Lei, “di disa-accoglienza”?
Spesso gli “ospiti” dei centri di accoglienza (migranti lavoratori, rifugiati e altri ancora) formano soltanto un amalgama di individui e gruppi separati, con status e situazioni sociali non sempre condivisi, accanto anche a tutta una serie di differenze negli itinerari personali e nei progetti diasporici. Si tratta di luoghi spesso tristi e fatiscenti all’interno dei quali convivono magari anche forme di condivisione ma marcate da nostalgia o progettualità interrotte. Nel caso dei richiedenti questo pare assolutamente non conforme al principio del diritto comunitario, secondo il quale “i richiedenti asilo possono circolare liberamente nel territorio dello Stato membro ospitante o nell’area loro assegnata da tale Stato membro”.

Come si può secondo Lei, rovesciare questa tendenza e far capire che il fenomeno migratorio è una ricchezza? Che ruolo deve giocare la società civile in ciò?

Occorre reagire, mettersi in circolo, alzare la voce, dissentire in modo attivo e deciso contro le vergognose derive delle leggi italiane in nome della sicurezza (da chi, da cosa?) che accrescono il senso dell’insicurezza e la precarietà.

Le vie per fare questo sono molte e diverse, quelle che io amo praticare da tempo, accanto a pratiche di dissenso politico, sono soprattutto quelle del contagio culturale a scuola e nel territorio attraverso, per esempio, laboratori dove si coinvolgono artisti e scrittori migranti, il dispositivo potente del teatro sociale, la diffusione della letteratura della migrazione e del cinema. Le scuole di ogni ordine e grado sono un laboratorio molto felice dove poter far germogliare i semi dell’intercultura.

“La colonna infinita”, dietro le quinte

4 agosto 2009 1 commento

Intervista alla regista Letteria Giuffrè Pagano

Si pubblica qui in anteprima un frammento dell’intervista che Alina Lungu ha fatto a Letteria Giuffrè Pagano dopo il debutto a Roma della pièce di Mircea Eliade “La colonna infinita”.


Alina Lungu: Il testo originale di Mircea Eliade è composto di tre parti, con più personaggi simbolici. Il tuo spettacolo propone una prospettiva diversa, un monologo in cui sono presenti diversi linguaggi artistici. Qual è il processo creativo, genetico di questo spettacolo? Come hai lavorato sul testo originale?

Letteria Giuffrè Pagano: Eliade ha scritto questa pièce in tre atti, nel 1970. Nel testo sono presenti indicazioni sceniche molto precise, riguardano la scenografia, le luci, i dettagli. I personaggi, tanti, si propongono come interlocutori dello scultore e permettono di raccontare la storia, di intuire il dramma. Un ruolo importante è quello della ragazza, che compare nel primo atto e ritorna, immutata, nel terzo, con un Brancusi ormai vecchio e stanco.

Mentre leggevo il testo per la prima volta, capivo già che se da un lato la pièce è irrappresentabile, dall’altro le suggestioni che Eliade mi dava erano molto chiare, così ho accolto la “sfida”. Ho iniziato a lavorare sull’adattamento, un lavoro durato tre mesi, meticoloso e attento. Questa in effetti è stata la fase più lunga della gestazione del lavoro. Il testo, nel mio spettacolo, è misurato, ma nessuna parola è stata cambiata rispetto all’originale e, come in una sintesi, è presente tutto, dall‘inizio alla fine. Era la mia scommessa, volevo un Eliade integro, inalterato ma per la scena. La trama sottile che sostiene la performance affonda radici nella mia idea greca di teatro, è presente infatti un prologo, un corpo centrale, un epilogo. Chiaramente ho dovuto fare delle scelte e seguire l’idea di fondo che avevo sulla rappresentazione. Poi è arrivato il momento di lavorare con l’attore.

Quanto importante è il gioco dell’attore rapportato ala scenografia, luci, musica ed oggetti che tu hai usato nel tuo spettacolo? Qual è la migliore proporzionalità tra tutti questi linguaggi scenici? Secondo me, uno dei migliori momenti dello spettacolo, quasi come un rituale sacro, è stato quello in cui l’attore-Brancusi esprime con il proprio corpo la nascita delle sue opere cantando come il gallo, la Maiastra. Questa scena esprime il messaggio di base dello spettacolo, ma senza usare le parole, senza entrare in relazione con nessun altro oggetto. Quindi quanto importante è il corpo umano in rapporto con gli altri linguaggi scenici?

Tazio Torrini, oltre ad essere un attore di talento, ha saputo mettersi totalmente in gioco in questo lavoro. Si è fidato delle indicazioni registiche proponendo azioni sceniche di grande interesse. Il suo apporto creativo è stato quindi notevole nella composizione dello spettacolo. Credo in un teatro totale, nel senso che tutto concorre all’opera, oggetti scenici, suono, colori, parole, movimento. Tutte le scelte sono state prese nel dialogo e ci siamo interrogati a lungo sul senso degli elementi che compaiono sulla scena. Sulle sculture di Brancusi abbiamo lavorato per giorni e giorni, quello era quello lo scoglio più grosso, oltre al testo naturalmente.

foto di scena, Firenze, 29 luglio

foto di scena, Firenze, 29 luglio

Il nostro lavoro si concentra sulla massa, la materia, lo spazio e soprattutto la luce e l’interpretazione dell’occhio in relazione a tutto questo. Ovviamente siamo partiti dalle nostre reazioni personali, del regista e dell’attore, per creare le azioni fisiche e visive dello spettacolo. Sì perché questo lavoro ha delle azioni visive – le immagini non sono lì solo per impressionare la retina, ma per creare il movimento – sia interno nello spettatore, che sulla scena nel corpo e nella voce dell’attore. Il corpo è il fulcro di tutto, ogni atto ogni movimento è significante: muove l’aria, crea cambiamento nello spazio, segna il tempo. E’ il corpo che muta la nostra percezione, è il transfert tra il visibile e l’invisibile. Questo tipo di processo creativo ha fatto sì che nulla risulti scontato o didascalico, aldilà del gusto personale, “La colonna infinita” possiede un elemento per me fondamentale: l’autenticità.

“La Colonna infinita” è uno spettacolo per un pubblico speciale, intellettuale oppure il suo messaggio è facile da comprendere?

L’utopia è quella di raggiungere l’universalità, ossia riuscire a mettere in gioco più livelli di comprensione. Per me questo è fondamentale, ma è una continua ricerca. La comprensione del testo in questo caso si sovrappone al gioco scenico dell’attore e alla partitura delle azioni, alle superfici visive che si stratificano l’una sull’altra. L’importante è destare la curiosità del pubblico, attivare la sua percezione e immaginazione. Del resto, non credo che il tema della sterilità, del blocco creativo, sia egemonia degli artisti o dei creativi; in qualche modo, ogni persona si è trovata qualche volta nella vita di fronte al vuoto, all’assenza e al silenzio… noi vogliamo scoprire se c’è una ricchezza del vuoto, del non sapere.

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[Red. FIRI] Aggiornamento: La versione romena e integrale dell’intervista, a cura di Alina Lungu, è stata pubblicata sul numero 9/2009 della rivista mensile Acolada (p. 18) di Satu Mare.

Romania d’antan

4 agosto 2009 Commenti disabilitati

di Filip Florian

Un frammento di una riflessione dello scrittore romeno sul passaggio dalla dittatura di Ceauşescu al capitalismo “orientale” di oggi.

Verso il 1985, non ancora terminato il liceo, una delle mie distrazioni preferite era di inventare, chiacchierando con il mio migliore amico, ogni genere di situazioni penose per Nicolae Ceauşescu. Nulla di coraggioso in ciò, solo la rabbia di due ragazzetti di punire, se non altro nelle loro fantasticherie, l’uomo che spargeva tanto male intorno a sé. Continuavamo a passeggiare per una grigia Bucarest, vedevamo con chiarezza la miseria, l’assurdità, la paura e le umiliazioni diffuse dappertutto, avevamo imparato a dire determinate cose sottovoce, perché non ci capitasse chissà quale disgrazia, e, se non proprio giornalmente, almeno una volta o due a settimana ci tuffavamo allora con voluttà in quel gioco bizzarro, condito (lo riconosco) non con sale e pepe, ma con una dose di sadismo. (…)

Paradossale o meno che sia, gli enormi cambiamenti degli ultimi venti anni in Romania non possono essere messi in dubbio, così come ancora evidenti sono i forti legami col passato. Quanto alle mentalità, la società appare divisa in fasce, in funzione dell’onestà e scrupolosità della memoria. Solo i giovani, i molto giovani, sono immuni dal grigiore del periodo comunista, quasi fossero rimasti al riparo da una malattia grave, che ha lasciato sofferenti gli altri. Non posso evitare di scrivere qui in che modo mio fratello più piccolo, che non aveva nemmeno quattro anni al tempo della rivolta contro Ceausescu, sia riuscito a spiazzarmi, di recente, con una semplice e innocente domanda. Durante una festa in famiglia raccontavo come da bambino fossi rimasto per quasi tre ore in coda, con un centinaio di persone, per comprare del riso. La venditrice ne pesava un chilo a testa, a un tratto però, scuotendo il sacco di iuta quasi vuoto, decise che non valeva più la pena spartire quanto era rimasto nel fondo. Dette al tizio che mi stava davanti tutto ciò che c’era, all’incirca un chilo e mezzo, mentre io con i nervi che mi scoppiavano le urlavo che voglio quel misero resto, meno di 500 grammi, a cui avevo diritto. Non mi dette ascolto, e l’uomo mi promise una sberla se non avessi smesso. Tremavo, mi sentivo impotente e defraudato. E mio fratello più piccolo, dopo avermi ascoltato fino in fondo, guardandomi con una certa dose di pietà mi ha chiesto: ma tu perché sei rimasto lì come uno scemo, tre ore, e non sei andato in un altro negozio? Lui, così legato al mondo d’oggi, non capirà mai come vivevamo allora.

(Il testo intero, tradotto da Bruno Mazzoni dal romeno, è stato pubblicato su “Il Manifesto” e può essere letto qui).

Filip Florian è nato nel 1968 a Bucarest. Dopo aver lavorato, fra il 1990 e il 1999, nella redazione della rivista “Cuvîntul” e come corrispondente di Radio Europa Libera e Deutsche Welle, debutta come scrittore in riviste letterarie con racconti brevi. Il debutto vero e proprio lo fa però nel 2005 con il romanzo Degete mici (Dita mignole, Polirom), vincitore del premio “România Literară” per debuttanti e del premio di eccellenza dell’U.N.P.R. (Unione degli imprenditori romeni).  Il successo del libro valica i confini romeni: il romanzo è già stato tradotto e pubblicato in Ungheria, Polonia, Germania, quest’anno sta uscendo negli Stati Uniti, Slovenia, Slovacchia, Spagna e Italia.

Nel 2006 ha pubblicato il libro di memorie Băiuţeii (I ragazzi di viale Băiuţ, Polirom) insieme al fratello Matei Florian, che riscuote grande successo di pubblico e di critica (è stato tradotto e pubblicato in Polonia presso la casa editrice Czarne). Nel 2008 ha pubblicato il romanzo Zilele regelui (“I giorni del re”), accolto con entusiasmo sia dai lettori che dalla critica e già pubblicato in Ungheria. Info e bibliografia, qui.

“Romania, Land of Choice”

2 agosto 2009 3 commenti

“Romania, Land of Choice”

Lanciato ieri 1 agosto lo spot della campagna che promuove la Romania come destinazione turistica

A due settimane dopo il rilancio del portale www.italia.it, sito ufficiale dedicato alla promozione del turismo in Italia (per la storia travagliata del sito, si veda qui), il ministero romeno del turismo ha lanciato ieri sera sul canale tv Eurosport (e previsto anche per CNN) la campagna di promozione turistica “Romania, Land of Choice”. Lo spot è realizzato con il concorso di tre famosi rappresentanti mondiali dello sport romeno: la ginnasta Nadia Comăneci, il tennista Ilie Năstase e il calciatore Gheorghe Hagi.

Secondo il ministro del turismo Elena Udrea, la campagna di promozione ha come target principale paesi come la Germania, la Spagna, la Francia, l’Austria, Israele e gli Stati Uniti.
“Romania, Land of Choice” costituisce solo una piccola parte dell’intero programma di promozione del turismo internazionale in Romania (cfr. http://romaniatourism.com/), che ha segnato una forte ripresa negli ultimi anni, dopo le incertezze e le fluttuazioni del settore negli anni Novanta.